Giornata della Memoria 2025: a fortuna tra lacrime e memoria

In occasione della Giornata della Memoria 2025, vi proponiamo una toccante testimonianza del nostro capo scout Mariano Iadanza.

Nei luoghi di sterminio camuffati da campi di lavoro si ha un concetto diverso della fortuna. Si può essere fortunati perché una sera si riceve un cucchiaio in più di cicoria, perché si ha il permesso di riposarsi qualche minuto in più. O perché si può trascorrere almeno parte della giornata senza un fucile puntato contro, sostituire l’ansia di essere brutalmente assassinati con la speranza di vedere di nuovo la luce del sole.

Mio nonno ebbe alcune di queste fortune. Catturato non lontano dal Brennero il 7 ottobre 1943, carabiniere in servizio nell’Italia sbandata dopo l’8 Settembre, fu ammassato come molti in un carro bestiame e trasferito in uno degli Stammlager tedeschi. 

Dei lunghi mesi di prigiona parlava solo a tratti, sia perché rinnovare il dolore era impresa essa stessa dolorosa, sia perché sapeva che i suoi racconti, la sera, attorno al fuoco del camino della vecchia casa dove trascorsi tante delle mie estati, lasciavano in chi ascoltava lo stesso senso di profondo smarrimento che dovette provare lui. Acuito, nel nostro caso, dall’amara consapevolezza che pur con tutta la possibile empatia, pur con tutta la capacità di immedesimazione, mai avremmo potuto capire davvero. Perché certo nel racconto le cose te le immagini, te le figuri nella mente. Ma l’odore di morte non lo senti. Il tremolio delle membra non lo avverti. I rumori degli spari non li conosci di persona. E la fame, quella vera, non sai cosa sia. Quante volte mio nonno ci invitava a ringraziare per un fico appena colto, una verdura appena raccolta, un fagiolo appena cotto sulle braci; quante volte ricordava il senso di vuoto e di vertigine che ti lascia la fame.

Conosceva qualche parola di tedesco, Mariano Iadanza, classe 1917. E si arrangiava a tagliare barba e capelli. Non poté fare a meno di usare queste conoscenze, nella lotta alla sopravvivenza del lager. Quando anche i suoi persecutori realizzarono quanto sapeva fare e dire, pretesero che servisse come barbiere delle truppe di stanza nel campo. Al lavoro della giornata si aggiungeva quello, odioso, di radere i soldati nemici, i carnefici di tanti condannati come lui. Mai amici, perché per sviluppare relazioni non c’era tempo e perché se devi lottare per sopravvivere nessuno ti è veramente amico.

Fortuna, dicevamo. Perché certo servire come barbiere significava avere accesso a un luogo confortevole, almeno caldo, sebbene solo per una minima parte della giornata. Significava avere a volte un bicchiere d’acqua fresca. Ma guai a tremare durante la rasatura, guai a tradire un segno d’incertezza. La liturgia dell’arianesimo non si esaurisce con il mito della prestanza fisica. Si nutre di riti secondo cui anche chi a quella liturgia partecipa deve essere all’altezza di quanto lo circonda. Sottoposti, sottomessi, subalterni, certo. Ma pur sempre capaci di servire con perfezione la perfezione.

Capitò dunque un giorno che un compagno di prigionia di mio nonno si lasciò andare a un tremore, incappò nel gesto imperfetto che mai è consentito. La lama dell’affilatissimo rasoio che in genere serviva da pausa nel delirio del campo, si trasformò improvvisamente in nemica. Sulla gota del soldato tedesco venuto a farsi bello comparve un breve rivolo di sangue. Un taglio di quelli che noi tutti abbiamo sperimentato, negli innumerevoli giorni seguiti alla nostra preadolescenza.

L’autore dell’imperdonabile errore si affrettò subito a scusarsi, in tedesco, a prendere la pezza per asciugare il volto non più perfetto del soldato oltraggiato. Mio nonno ebbe l’impeto di aiutarlo ma in un raro gesto di umanità, il soldato a lui affidato lo trattenne stringendogli il polso, impedendogli qualsiasi cedimento alla solidarietà. L’altro soldato, quello ferito, si alzò sul predellino della sedia, osservò il suo volto rigato nello specchio. Indi si voltò, la mano sulla pistola e sparò. Sicché rivoli di sangue ben più copiosi bagnarono il pavimento: null’altro che una vittima in più da aggiungere ai registri dei caduti.

Lo avevano ammazzato così. Per un taglietto dal barbiere. E ci volle una forza attinta chissà dove, perché mio nonno potesse continuare il suo lavoro, senza tremare, senza subire la stessa sorte.

Fortuna dicevamo. Di quelle che ti permettono di raccontare perché sei vivo, sei sopravvissuto. Di quelle che ti riempiono il viso di lacrime, ti spezzano la voce, ti gettano in un turbinio di pensieri solo tuoi. Chissà quanti, chissà quali.

Alle nostre, ai nostri giovani. Alle educatrici e agli educatori che li guidano, auguro di ascoltare, di raccontare, con gli occhi lucidi di lacrime. Fin quando avverrà, vorrà dire che non accadrà più. Che potremo ritrovare il vero significato della parola fortuna.

Mariano Iadanza, Capo Scout CNGEI